martedì 31 gennaio 2012

"Scusate, non ce la faccio più"


"Scusate, non ce la faccio più" è questa l'ultima frase che scrive un imprenditore veneto prima di puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto. Aveva, invece, solamente quarantatré anni la titolare di un attività di ristorazione, la quale, dopo aver accompagnato la figlia più piccola a scuola, riservandole un ultimo abbraccio, ha preferito esalare l’ultimo respiro gettandosi sotto un treno. Questi sono solo due casi di una silenziosa strage che si sta consumando nel nostro Paese: è sempre crescente, infatti, (circa 25 solo lo scorso anno) il numero degli imprenditori che, strozzati dai debiti, si tolgono la vita. Nel 2011 si sono registrati 8.566 fallimenti, un aumento del 35,5% rispetto al 2009 e, nella maggior parte dei casi, le aziende in questione sono state costrette a chiudere a causa di debiti da usura. Tale fenomeno è, ad oggi, sicuramente alimentato dalla crisi economica che aleggia nell’aere ma, a fare la sua parte, vi è anche e soprattutto un ottuso sistema bancario prepotentemente mantenuto in vigore. Infatti, se in questo periodo ci si reca in un istituto di credito, in veste di cittadini privati o in veste di titolari d'imprese, con l’intento di chiedere un piccolo finanziamento, un prestito temporaneo o un fido, si ha la certezza quasi matematica di ricevere sempre la stessa risposta: "Ci dispiace ma non è possibile". A dimostrazione dell’esistenza di questa “regola” si pongono, di fatto, alcune eccezioni: quei rari casi in cui la concessione avviene a patto che il debito contratto si ripaghi a tassi d'interesse esorbitanti.
Le banche, dunque, non erogano più credito (nonostante abbiano ricevuto dalla BCE un prestito da 50 miliardi di Euro al tasso dell'1% per tre anni finalizzato proprio a rilanciare l'economia tramite i prestiti alle Imprese) e preferiscono conservare il denaro in modo da poterlo investire al momento giusto in titoli di Stato (che rendono il 6%) o per poterlo usare come salvagente nel momento in cui si ritrovano ridotte in braghe di tela.

Dunque un imprenditore, un piccolo pedone che si muove costretto in questa drammatica scacchiera, ha la facoltà di scegliere fra due allettanti opzioni: lasciare che a "strozzarlo" sia lo Stato (tramite Equitalia) o, meglio ancora, il racket (che dispone di tutta la liquidità possibile per soddisfare la domanda). Spesso si sceglie la seconda strada, che apparentemente dà più tempo o quanto meno non effettua l’immediato pignoramento dell’abitazione. Se ci si impegna ad osservare da questa dolorosa prospettiva, è forse un po’ più facile comprendere quelle persone che, vedendo le proprie aziende espropriate o fallite e dovendo licenziare operai padri di famiglia, sentono profondamente lesa la propria dignità e trovano nella morte l'unica soluzione.

Per l'ennesima volta, siamo riusciti a creare un sistema anomalo senza precedenti nel resto del mondo: si fa di tutto per salvare le banche (principale causa della crisi) consegnando nelle mani della criminalità organizzata le imprese (che dovrebbero esserne la soluzione). Non si riesce proprio a capire che la bancocrazia non funziona eppure, se invece che alle banche (mandanti morali di queste morti) la BCE avesse concesso il prestito all'1% di interesse allo Stato Italiano, molte attività si sarebbero rimesse in moto e, forse, qualche bambino godrebbe ancora dell’affetto dei propri genitori.

Francesco Denaro

martedì 17 gennaio 2012

IN SERIE B


E fu così che l’Italia venne declassata! In un uggioso sabato mattina, la popolazione italiana si svegliò e si ritrovò in serie B;tuttavia la retrocessione, stavolta, non era riferita a qualche disciplina sportiva ma alla nostra cara economia.
“L’autorevole” agenzia Standard & Poor’s, ci ha condannati al purgatorio non ritenendoci in grado di risanare il nostro debito.
In questo contesto, il cambio di governo, le mal digeste manovre di austerità e la macelleria sociale, impostaci sotto lo spauracchio del default, sono servite a poco o a nulla: siamo ancora ritenuti poco credibili.

In realtà siamo davvero così incapaci a risollevare le nostre finanze?

Basandosi su un’analisi dell’operato dei politici che ci hanno governati negli ultimi vent’anni, che si sono occupati di tutto (partendo dagli interessi personali, passando per p3, p4, trans, sino ad arrivare alle nipoti di Mubarak) tranne che dei propri cittadini, verrebbe la tentazione di avallare le teorie della "famosa" agenzia di rating, se non fosse per un piccolissimo, quasi insignificante, particolare. L’economia americana, dopo la crisi del 2008, non si è più ripresa anzi ha continuato a scivolare verso il baratro e, secondo qualche ben informato, il fondo sarebbe molto più vicino di quanto si voglia far credere. Negli anni scorsi ad ogni accenno di inclinatura delle finanze statunitensi, logicamente seguiva un intervento bellico che vedeva lo Stato in questione protagonista e provvedeva così a rimettere in moto la sua industria più produttiva: quella delle armi. Oggi, con un presidente che del motto “basta guerre, riportiamo a casa i nostri ragazzi” ha fatto la colonna portante della propria campagna elettorale, è più difficile intraprendere azioni militari che non siano ben giustificate. È così che, da molto tempo, assistiamo a continue schermaglie con l’Iran e la sensazione che si ha è quella di osservare qualcosa di già visto: tutto ciò ricorda molto quello che avvenne prima dei due conflitti del Golfo, manca solo la balla da raccontare al mondo per giustificare un eventuale intervento, manca, insomma, una pseudo infermiera (poi rivelabile nipote dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti) che racconti di aver visto iracheni uccidere neonati dentro le incubatrici di un ospedale del Kuwait o un segretario di Stato che racconti all’ONU le potenzialità devastanti delle armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein, ad oggi mai ritrovate.
Per inventare storie credibili, però, ci vuole tempo, l’unica cosa che gli Stati Uniti non hanno: il sistema finanziario da essi creato gli si sta ritorcendo contro, riducendoli all’osso. Vediamo quindi gli avvoltoi (speculatori finanziari) aleggiare su un moribondo (gli USA) aspettandone il decesso e magari planando ogni tanto su di esso, beccandolo un po’ per velocizzarne il trapasso.
A questo punto servirebbe un’idea utile per produrre il tempo necessario allo Stato morente per fabbricare una pistola fumante. Perché, dunque, non far credere agli avvoltoi che esista un altro moribondo (l’Europa), più grasso e più appetibile, poco più avanti? Visto che gli unici organi predisposti a constatarne il grado di salute (le agenzie di rating) sono sotto il controllo e di proprietà degli Usa, tale non era un’impresa poi così ardua ed ecco il caso Grecia. Inizialmente essa viene aiutata da una banca americana a falsificare i bilanci per entrare nell’Unione Europea, poi, quando ci si accorge che la nazione è senza un soldo, cominciano i continui tagli di rating che la costringono a politiche di austerità sempre più aggressive finalizzate al pagamento del proprio debito: ecco creato il virus che ha contagiato mezza Europa, è lei il nuovo moribondo da dare in pasto agli avvoltoi.

Ad oggi lascia sgomenti la reazione dei politici europei che, invece di far pressione affinché vengano chiuse queste agenzie, continuano a fare dichiarazioni pubbliche per compiacerle. Come si fa a dare ancora credito a delle agenzie di rating che fino al giorno prima del fallimento della Parmalat e della Lehman Brother assegnavano loro la tripla A, che paragonavano prodotti devirati con all’interno mutui sub prime ai titoli di Stato, definendoli egualmente a basso rischio, che teoricamente sono agenzie private ma praticamente sono foraggiate dalle banche d’investimento americane e che, se chiamate a giudizio sul proprio operato, se la cavano sempre definendo la loro “solo un’opinione”?

Senza rendercene conto abbiamo affidato il futuro nostro, dei nostri figli, delle nostre aziende e dei nostri risparmi nelle mani di poco chiari sistemi finanziari che hanno come unico obbiettivo quello di fare profitti a tutti i costi. Finché non faremo capire a chi ci governa, sia a livello nazionale che europeo, che il sistema economico attuale, essendo fallito, va cambiato e che è necessario che queste agenzie di rating chiudano o diventino meno influenti sul mondo economico, non saremo più artefici del nostro destino.

Il contenuto di questo articolo è frutto di personali congetture ma, se è vero come è vero, che più indizi fanno una prova e che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, forse…

Francesco Denaro

mercoledì 2 marzo 2011

Dimission Impossible


Questa mattina, al ministero della Difesa, c'era aria tesa. Quando il ministro arriva, con un foglio nella mano, si scatenano i flash dei fotografi. In sala stampa si attende con trepidazione l'annuncio che svelerà la sua decisione. Pronuncia poche parole, "È la decisione più dolorosa della mia vita", "Non si lascia facilmente un incarico che si è svolto con il cuore", "Ero ancora pronto a combattere, ma ho raggiunto i limiti delle mie forze", che però non lasciano spazio a interpretazioni: si è dimesso.
Termina così la carriera politica dell'astro nascente della CDU nonché ministro della Difesa tedesca Karl Theodor zu Guttenberg. La decisione di dimettersi matura a seguito del cosiddetto copygate. Il politico era stato accusato da un professore universitario di aver copiato parti della sua tesi di dottorato all'Università di Bayreuth. Quando il plagio è finito in rete - quasi subito - unanime si è levato lo sdegno del mondo Accademico, facendo perdere al ministro il titolo di dottore e la poltrona... e pensare che era il candidato favorito alla sostituzione di Angela Merkel.
La notizia arriva in Italia in tarda mattinata e si abbatte sul parlamento come uno Tsunami. Mentre un deputato sta parlando alla camera, i colleghi – come da prassi – leggono il giornale, parlano al telefono, discutono tra loro e navigano su Internet. Ed è qui che si consuma la tragedia. Tra un sito di escort e l'altro, qualcuno trova il tempo di dare un'occhiata all'Ansa e legge un comunicato che mai avrebbe voluto leggere. La notizia si espande subito da una parte all'altra dell'emiciclo. Si assiste così a scene di panico: c'è chi ha le mani tra i capelli, chi fissa il vuoto, chi si confronta in modo animato con i colleghi. La seduta viene immediatamente sospesa. È indetto un consiglio dei Ministri Straordinario. All'uscita di Montecitorio nessuno ha voglia di parlare, ma si riescono comunque a percepire alcuni brani di conversazione.
"Siamo sicuri che si sia dimesso? Ma senza aggredire i mezzi d'Informazione né la magistratura?".
"Sicurissimo,anzi pare che non abbia detto nulla neanche sull'opposizione e sulla presidenza della Repubblica".
"Assurdo, 'sti Tedeschi".
Dall'altra parte della città, nel frattempo, i primi ministri arrivano per la seduta Straordinaria. Nessuno si sbilancia, rimangono tutti con le bocche cucite. Neanche la prospettiva di parlare davanti a un microfono senza che nessun giornalista ponga domande – come lo stile giornalistico italiano impone – sembra convincere qualcuno a parlare. Si riesce in modo fortunoso a sentire stralci di discussione.
"Ma non poteva far approvare una legge per rendere legale il plagio? o dichiarare di aver copiato nell'esercizio delle sue Funzioni?".
"Non lo so, sicuramente avrei dichiarato che la tesi era per la nipote di qualcuno, ma poi al giorno d'oggi chi è che non copia? Senza considerare che è meglio copiare che essere froci".
La seduta dura fino a tarda notte. Secondo indiscrezioni si tratta di una riunione infuocata: tutti convengono nel condannare il gesto del ministro teutonico: "Con queste dimissioni si crea un precedente nel modo di fare e di concepire la politica". Adesso tutti i ministri si vedranno costretti a rendere conto dei propri comportamenti e a spiegare come mai non si siano dimessi.
Il primo a insorgere sembra sia stato il ministro della Difesa – omologo del dimissionario – che si trova nella condizione di dover chiarire come faccia a essere ancora al suo posto dopo aver scalciato un giornalista, accusandolo di aggressione, mentre la digos lo portava via; dopo aver aggredito verbalmente un giovane studente in diretta televisiva mentre questi esprimeva una sua opinione; dopo aver cacciato – personalmente – un giornalista durante una conferenza stampa perché poneva domande a lui sgradite.
Altre spiegazioni dovranno arrivare dal ministro dei beni Culturali coinvolto nell'Affaire Bulgaro. Ovvero sarà costretto a dar conto dei 400.000 euro a carico dell'erario spesi per organizzare una finta premiazione – durante il Festival del cinema di Venezia – a favore di una Attrice\Regista Bulgara – amica del presidente del Consiglio – per farle credere di aver vinto la Kermesse, con tanto di ospiti, cerimonia di premiazione e premio patacca.
Il ministro degli Esteri sarà tenuto a svelare come mai, in piena crisi magrebina non una volta riferì in parlamento sulla questione, mentre nello stesso periodo, venuto in possesso di documenti da un paese straniero – da lui richiesti precedentemente a titolo personale – chiese un'interrogazione urgente in senato nel tentativo di delegittimare la terza carica dello Stato.
Il ministro degli Interni dovrà raccontare della sua condanna definitiva per resistenza a Pubblico Ufficiale, lo stesso reato di cui sono accusati gli studenti arrestati durante le manifestazioni studentesche, e per i quali chiede pene esemplari. Lo stesso ministro, assieme a quelli del Welfare (che ormai si esprime soltanto con il dito medio) e della Semplificazione, dovrà spiegare perché, dopo aver giurato sulla Costituzione della Repubblica italiana, non si riconosce in essa, si rifiuta di cantare l'inno nazionale, si pulisce il culo con il tricolore e tuttavia continua a percepire lo stipendio faraonico che la Costituzione prevede gli venga elargito.
Altre rivelazioni verranno sicuramente dal ministro delle Pari Opportunità, che svelerà come è avvenuto il miracolo che l'ha portata, da semplice soubrette, a diventare detentrice di un Dicastero. Altri ministri sembra non si siano espressi e il presidente del Consiglio si è limitato a dire "No comment, altrimenti con tutte le mie questioni famo notte".
L'unica dichiarazione ufficiale è venuta dal ministro degli Esteri: "Restiamo convinti che tutto questo sia un complotto contro il nostro paese e non escludiamo un ricorso alla Corte Europea per far ritirare le dimissioni del sig. Guttenberg. È inconcepibile che si possa creare un precedente del genere".
In altri paesi i politici si dimettono per motivi che possono sembrare futili, dimostrando il proprio rispetto verso i cittadini e le istituzioni che rappresentano. In Italia, non si capiscono bene i confini oltre i quali i parlamentari possono andare, non si capisce quale soglia devono attraversare affinché si possano e si debbano dimettere. Se si considera poi che in parlamento, a legiferare, ci sono venti condannati in via definitiva, ci si rende conto che noi italiani abbiamo "delegato" dei fuorilegge a fare le leggi.*

* Ogni riferimento,contenuto nell'articolo, a persone e a fatti realmente accaduti sono puramente casuali.

Francesco Denaro

mercoledì 8 dicembre 2010

"Il Fatto non costituisce reato"


Sorge il sole su Casalecchio di Reno, paesino a pochi passi da Bologna. La temperatura è rigida, ma i primi raggi di sole iniziano a riscaldare l'aria e i cuori delle persone che si apprestano ad affrontare la quotidianità. È il 6 Dicembre 1990. Numerosi ragazzi affollano il cortile della succursale dell'Istituto Tecnico Salvemini: si odono risate, schiamazzi, qualcuno si accorda su come trascorrere il giorno dell'Immacolata. Insomma sta per cominciare una normale giornata scolastica, preceduta dal suono della campana che richiama tutti alle rispettive classi. Sono le 8:00.
Aereoporto militare di Villafranca (Verona) ore 9:47. Un Aermacchi MB 326 dell’Aeronautica Militare Italiana decolla per un volo di addestramento. Ai comandi dell'aereo si trova il Tenente Bruno Viviani. Durante il volo, presso Ferrara, si accorge che qualcosa non va' nel velivolo e contatta la Torre di controllo di Padova:
VIVIANI: "Sono a Nord di Ferrara, piantato motore 150 nodi, 4500 piedi, 356".
PADOVA (centro radar militare): "Ricevuto, intenzioni?".
VIVIANI: "Emergenza".
PADOVA: "Ricevuto".
VIVIANI: "Se ci arrivo mi dirigo direttamente verso campo di Ferrara, direttamente".
PADOVA: "Ricevuto".
Sono le 10:37. Un minuto dopo il centro radar contatta il velivolo.
PADOVA: "Intende effettuare un atterraggio di emergenza sulla pista di Ferrara?".
VIVIANI: "Si è forse riacceso, comunque non fa più del 70%, con 150 nodi, provo ad andare a Bologna”.
Nell'istituto scolastico tutto procede tranquillo. La seconda A, composta da 14 ragazze e 2 ragazzi, è alle prese con una interminabile lezione di tedesco. Qualcuno si distrae guardando fuori la finestra che dà sul cortile, la grammatica tedesca non si fa amare particolarmente. Improvvisamente un rombo: a quel punto tutti distolgono l'attenzione dall'insegnante e si voltano verso la finestra. Ma è un rumore anomalo, diventa ogni istante più vicino, sempre più vicino finché i vetri esplodono e un gigantesco mostro di metallo squarcia le mura penetrando dentro l'aula ed esplodendo in una gigantesca palla di Fuoco.
L'Aermacchi in panne non arriva mai a Bologna ma si schianta sull'Istituto Tecnico Salvemini. Il pilota resosi conto ormai tardi (stava sorvolando un centro abitato) di non poter più controllare l'aereo, aziona il dispositivo di espulsione di emergenza, lasciando l'aereo al suo destino. Questo, dopo aver effettuato un paio di "evoluzioni", perde sempre più quota finché va ad impattare contro l'edificio. Lo scenario che si presenta ai primi soccorritori è apocalittico. Si trovano davanti un edificio completamente avvolto dalla fiamme (il carburante presente nel velivolo ha preso fuoco al momento dell'impatto) con un grosso buco in una delle pareti. Il Cortile che prima era sinonimo di spensieratezza, adesso ospita numerosi adolescenti anneriti che si gettano dalle finestre per sfuggire al fumo e alle fiamme. Vengono subito issate delle scale di fortuna per permettere ai ragazzi di salvarsi, in attesa dell'arrivo dei vigili del fuoco. Il Bilancio è drammatico: 12 ragazzi morti (tutti della seconda A) e 88 feriti per ustioni, intossicazioni e fratture. 72 di questi riportano invalidità permanenti tra il 5 e l'85 per cento. Numerosi genitori sotto shock fanno la fila davanti al centro di Medicina Legale, con la speranza che i resti che gli mostreranno non appartengano ai propri figli. Non immaginano neanche lontanamente che oltre al danno, l'aver perso i loro congiunti appena quindicenni, si prospetta all'orizzonte anche una colossale beffa. Inizialmente non si capiscono le cause della tragedia e vengono formulate le ipotesi più disparate, dal guasto meccanico al malore del pilota. Poi, anche grazie alle registrazioni delle conversazioni tra pilota e centro radar, si stabilisce che la causa è stata un guasto tecnico, rilevato molto tempo prima dell'impatto. Una volta che l'inchiesta stabilisce le cause, parte l'iter giudiziario a carico del tenente Bruno Vivani, per il suo superiore, comandante Eugenio Brega, e per l'ufficiale della torre di controllo di Villafranca, colonnello Roberto Corsini. Ai tre, anche se in modi diversi, viene imputato il fatto che, una volta resosi conto del guasto, "il pilota avrebbe dovuto tentare un atterraggio di fortuna a Ferrara, o puntare verso il mare per poi paracadutarsi".
Il Processo si è dimostrato qualcosa di assurdo, perchè in teoria ha visto lo Stato (Ministero della pubblica istruzione) contro lo Stato (Ministero della Difesa). Solo che i tre militari sono stati difesi dall'Avvocatura di Stato e quindi di fatto le Istituzioni si sono schierate con l'Aereonautica, tutelando così chi ha provocato il danno e non chi lo ha subìto. I genitori delle vittime, che avevano mandato i propri figli in una scuola statale, in un luogo cioè che ritenevano sicuro, al processo, hanno ritrovato lo Stato non come alleato ma come avversario. La sentenza di primo grado condannato gli Imputati Viviani, Brega e Corsini a pene superiori ai due anni, per disastro aviatorio colposo e lesioni colpevoli, e il Ministero della difesa a risarcire i danni (per responsabilità civile). Nel secondo grado di giudizio la Corte d'Appello di Bologna ha ribaltato la sentenza ed ha assolto i militari. Infine il 26 gennaio 1998, la 4ª Sezione della Corte di Cassazione di Roma ha respinto gli ultimi ricorsi dei familiari delle vittime e confermato l'assoluzione per tutte le parti coinvolte, perché "il fatto non costituisce reato". Nessuno è colpevole. Nessuno pagherà per quelle vite spezzate, per la sofferenza dei genitori che quella mattina hanno affidato i loro sogni, le loro speranze a una Istituzione pubblica e un paio d'ore dopo hanno ritrovato il tutto chiuso dentro un sacco nero della spazzatura, insieme a quel che restava dei loro figli. Questa è l'ennesima pagina nera della nostra storia, troppo in fretta dimenticata, ma che ci dimostra, se ancora servisse, da che parte sta la Politica (quella economicamente più forte) nel momento del bisogno dei cittadini. Per lo Stato Italiano i veri colpevoli di questa vicenda sono :Deborah Alutto, Laura Armaroli, Sara Baroncini, Laura Corazza, Tiziana De Leo, Antonella Ferrari, Alessandra Gennari, Dario Lucchini, Elisabetta Patrizi, Elena Righetti, Carmen Schirinzi e Alessandra Venturi. Rei di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, peccato fosse una scuola statale.

Francesco Denaro

sabato 28 agosto 2010

La Pacchia è finita?


Sono seduto in un ristorante del centro Italia. Il vociare degli operai intenti a consumare il proprio pranzo e il tintinnio delle posate che incocciano con i piatti, rilegano l’audio proveniente da un televisore a semplice sottofondo, appena udibile. Improvvisamente tutto si zittisce, la tv da semplice comprimario diventa protagonista. Irrompono le notizie del telegiornale. Il fatto del giorno sembra essere il taglio dei fondi alle Regioni previsto nella nuova finanziaria. Quando il cronista inizia ad elencare le reazioni e i commenti dei vari presidenti di Regione e si sofferma sulle dichiarazioni dei governatori del Lazio (Polverini) e della Calabria (Scopelliti) – i quali sostengono che quel tipo di provvedimento può mettere in ginocchio le rispettive Regioni, a causa dell'enorme voragine presente alla voce sanità – nel ristorante si alza un coro unanime: "Era ora che levassero i fondi a questa gente! Basta mangiare sulle nostre spalle! La Pacchia è finita!".

Da calabrese orgoglioso e fiero delle sue origini, la mia prima reazione è stata di indignazione. Ma più passavo il tempo ad ascoltare quegli operai in abiti da lavoro che sostenevano le proprie ragioni e più non potevo fare a meno di convenire con loro. Al caffé le loro tesi erano quasi inconfutabili.

Per l'Unione Europea la Calabria è una Regione a Obiettivo 1. Cioè un territorio bisognoso di promuovere lo sviluppo e l'adeguamento strutturale, per integrarsi completamente nello spazio comunitario. Usufruisce perciò di tre tipi di Fondi: F.E.S.R. (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), F.S.E (Fondo Sociale Europeo), F.E.A.O.G. (Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia). Se a questi aggiungiamo i contributi che fino ad oggi lo Stato versava alle Regioni, la Calabria diventa uno dei territori a cui vengono erogati più fondi. Ma che fine fanno? Come vengono utilizzati? Nessuno lo sa. Sappiamo, tuttavia, che abbiamo la maggior parte degli edifici pubblici (tra cui scuole, asili, ospedali) a dir poco fatiscenti; che le strade e le autostrade sono degne della Beirut anni ’80; che nessun nuovo posto di lavoro è stato creato e, di conseguenza, non c’è nessuna prospettiva per i giovani (sembra di essere regrediti di 50 anni, quando l'unico futuro era l'emigrazione); che la Sanità è un vero e proprio cancro che consuma soldi su soldi lasciando i servizi invariati.

Ciò nonostante negli ultimi tempi sembra essersi aperta una breccia nel muro del silenzio che circondava le sorti dei finanziamenti Europei. Il ministro dell'Economia Tremonti, durante un’infuocata conferenza stampa, ha svelato che solo 4 miliardi di euro dei 44 destinati al sud Italia sono stati impiegati (dimenticandosi di spiegare come), gli altri giacciono inutilizzati (anche in questo caso si è scordato di definire la parola “Inutilizzati”. Vorrà dire, sperando che questi soldi ancora esistano, che ci divertiremo ad immaginarli nel gigantesco deposito di zio Paperone). L'occhialuto Ministro non si è limitato a riportare i dati, ma ha anche puntato il dito contro le classi dirigenti locali, ritenendole, a suo dire, “responsabili di questa situazione” e definendole “Cialtroni”. Come non convenire con il Ministro? Quando a decidere le nostre sorti sono dei politicanti sempre più somiglianti a rockstars o a divi hollywoodiani (che girano in Suv, indossando Rolex d'oro e vestiti Armani)?

Alle ultime elezioni regionali ci hanno ripetuto sino alla nausea degli slogan di cambiamento e proposto dei tagli con il precedente modo di fare politica, per poi, una volta finita la tornata elettorale, seguitare a ripetere gli stessi errori. Fanno finta di preoccuparsi di doverci mettere le mani in tasca per ripianare i buchi della Regione (da loro creati), quando invece non si fanno alcuno scrupolo a sfilarci i soldi da sotto il naso (in forma di tasse) per pagarsi i loro immeritati e illegali stipendi faraonici. A conferma che nulla è cambiato basti leggere il Corriere della Sera del 10 luglio 2010, pagina 10. La giornalista Stefania Tamburello intervista il presidente Scopelliti. Dopo aver ascoltato una lista interminabile di tagli da dover operare per risanare la Regione (tra cui i costi della politica), la firma del corsera pone una domanda (incredibile da credersi ma esistono ancora giornalisti che possono fare domande). "Allora si ridurrà lo stipendio?" - risposta testuale - " Comprimeremo le spese di funzionamento della Regione, dalle consulenze ai beni strumentali e elimineremo le leggi di spesa non socialmente orientate."Eh? Alzi la mano chi non ha dovuto rileggere almeno tre volte la risposta per dargli un senso, che poi in termini pratici non voglia dire nulla è un altro paio di maniche. Ci si nasconde dietro il politichese per non dire di non essere disposti a rinunciare ai privilegi e quindi dimostrando ancora una volta, se ancora ce ne fosse bisogno, che per loro la politica è come speculare in borsa, un business, e i cittadini sono soltanto mezzi per raggiungere i loro avidi scopi.

La risposta che ci saremmo aspettati da un politico con seria volontà di cambiamento e che rimanesse minimamente coerente con la propria campagna elettorale, sarebbe stata: "Sì ci ridurremo lo stipendio. Reputiamo immorale guadagnare 11.316 euro al mese, quando nella nostra Regione ci sono giovani che ne guadagnano 800 e spesso in nero, mentre altri sono costretti ad emigrare per una vita più dignitosa. Finché durerà la crisi e i conti della Calabria non saranno a posto, percepiremo solo il 10% dello stipendio, seguendo l'esempio di Giovanni Favia, eletto in Emilia Romagna con il Movimento Cinque Stelle, che degli 11.053 euro riconosciuti ai consiglieri della sua Regione, ne tratterrà 1.300 e restituirà il resto ai cittadini. Per quei miei colleghi che già percepiscono introiti indipendenti dalla politica, il compenso previsto come consigliere regionale sarà sospeso. Così facendo riusciremo a risparmiare 10.000 euro circa per consigliere regionale: moltiplicandoli per 50, ossia il numero degli eletti alla Regione, avremo infine un budget di circa 500.000 euro al mese da donare, volta per volta, ad un ospedale o ad una scuola."

Temo, tuttavia, che questa rimanga una folle disamina di chi crede ancora di vivere in un paese di nome Utòpia.


Francesco Denaro

martedì 11 maggio 2010

Silenzio in stampa

Nel 1964 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò che la stampa ha il dovere di criticare i politici. Ispirandosi al Primo Emendamento della propria Costituzione (non sono ammessi limiti alla libertà di stampa quando si tratta di pubblico interesse), i giudici ribaltarono il verdetto di condanna per diffamazione inflitto ai giornalisti del New York Times, spiegando che un redattore può essere punito solo se è consapevole di pubblicare notizie false. Di fatto, il giornalista diventò il cane da guardia della democrazia. In Italia, invece, per passare da cane da guardia della democrazia a cane da guardia del potente il passo è breve: basta girare le spalle alla morale e all'etica. Alcuni direttori, cronisti, commentatori hanno deciso che stare dalla parte del padrone – che spesso coincide con la figura del loro editore – è più proficuo.
I grandi maestri del giornalismo hanno sempre sostenuto e insegnato che la regola numero uno per diventare un buon giornalista è fare domande scomode a personaggi scomodi. Nel corso degli anni, tuttavia, sembra che questa norma si sia trasformata in: "se vuoi lavorare in una redazione devi leccare il sedere a qualcuno". Chi ha applicato alla lettera questo criterio è il Tg1.
Da circa un anno – cioè da quando si è insediato il nuovo direttore (Minzolini) – guardando il Tg1 si assiste a continui black out riguardanti notizie scomode, a mezze verità e a interminabili servizi su costume e animali. Questo ha comportato un notevole calo negli ascolti (dal 32,79 per cento del 2006 al 27,5 per cento di oggi) che è costato al Tg1 lo status di "tg di riferimento per gli italiani". Ma non è tutto. Da un’inchiesta giornalistica – fortunatamente è rimasto chi ancora fa’ il proprio lavoro – sono emerse delle intercettazioni telefoniche riguardanti proprio il direttore Minzolini intento a rassicurare un politico sulla propria fedeltà. Applicando "la regola", il telegiornalista Giorgino – che adesso conduce l'edizione delle 20:00 – approntò una lettera di sostegno per il direttore, dove si dichiarava che nonostante tutto la redazione lo sosteneva. Non parteciparono alla farsa – dunque non firmarono – numerosi mezzibusti "famosi" tra cui Tiziana Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Maria Luisa Busi. I tre entrarono in aperto contrasto con Minzolini sottolineando che durante un Tg è assurdo leggere una nota di quattro righe sui cassaintegrati che scioperano all'Asinara e poi fare tre minuti di servizio sui cigni islandesi. Questa precisazione – ma sopratutto la mancata firma di sostegno – è costata cara ai dissidenti, i quali sono stati rimossi dai propri incarichi. Alle numerose polemiche piovutegli addosso a causa di queste epurazioni, il "direttorissimo" si è giustificato asserendo motivi anagrafici (peccato che la carta d'identità sia valsa solo per chi non aveva apposto la firma).
La situazione della carta stampata, a ben vedere, è anche peggiore. Quasi tutti i quotidiani che si trovano in edicola usufruiscono dei finanziamenti dello Stato. Nel 1981 fu varata una legge che riconosceva aiuti economici ai giornali di partito incapaci di sostenersi da soli. Nel 1987 la legge cambiò: se due deputati affermavano che il giornale x è un organo di un movimento politico, anch’esso può servirsi dei finanziamenti. Nel 2001 avvenne l’ennesimo ritocco alla legge: per essere finanziati, bisognava diventare una cooperativa. Attualmente, a causa di queste leggi, si spendono 667 milioni di euro all'anno per finanziare molti giornali, nonostante la maggior parte di essi non ne ha bisogno perché guadagna abbastanza sia dalla pubblicità sia dalle vendite. Ma questa è un altra storia.
Con tutti questi milioni in ballo, quali linee editoriali adottereste se voi, cari lettori, foste i proprietari di alcuni giornali? Sicuramente non attacchereste chi vi tiene in pugno, minacciandovi a ogni occasione di levarvi i finanziamenti. Vi operereste, anzi, a nascondere, a tagliare o a far semplicemente finta che una notizia non ci sia. Quale imparzialità ci si può aspettare da questi giornali? Quale verità dovrebbero svelare? Se per assurdo s’immaginasse che le notizie non siano pilotate dalla venalità, il risultato non cambierebbe perchè la maggior parte della carta stampata è sotto controllo politico. Ad esempio Libero e Il Riformista appartengono a un senatore; Il Giornale è del fratello del Presidente del Consiglio; L'Unità, Il Manifesto, Il Secolo sono tutti giornali di "partito" – e se ne potrebbero citare tanti altri che appartengono a questa fattispecie.
Nelle maggiori democrazie liberali le regole del gioco sono chiare: la selezione delle classi dirigenti viene demandata all'opinione pubblica. L’elettore, quindi, avrebbe il diritto di sapere tutto sul proprio candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto. Ma in un paese come l'Italia, dove la fonte principale d'informazione è costituita dalle tv e dai giornali – cioè da quella stampa condizionata dagli interessi e dalle paure sopra citate – questo diritto viene palesemente meno. La cosa preoccupante è che il modo di fare informazione degli ultimi tempi è considerato la normalità. Non servono a nulla gli International Journalism Festival che rivendicano la libertà di stampa, se poi ai giovani presenti non si spiega il modo di fare giornalismo. Era un festival "internazionale" ma non c’erano – e nemmeno si è parlato – di personaggi come Carl Bernstein (Premio Pulitzer nel 1973 "per il Servizio Pubblico", grazie all'inchiesta giornalistica che svelò i retroscena dello scandalo Watergate, che spinse il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni) o Malcolm Browne (Premio Pulitzer nel 1964 per i reportage dal Vietnam). In compenso, però, c'erano i "professionisti" dei tg.
La verità è che i mezzi d'informazione sono diventati uffici stampa di politici-padroni e spacciatori di notizie inutili, inconsapevoli (forse) che in questo modo uccidono la libertà di parola. Dai media sentiamo ripetere sempre i soliti slogan ("libertà di stampa e di espressione") i quali, alla fine, si rivelano paurosamente simili a quelli di Orwell in 1984 ("La guerra è pace e L’ignoranza è forza").
Otterremo la vera libertà di stampa solo quando smetteremo di dare soldi alla stampa. Perché un editore o è libero da qualsiasi vincolo politico-economico o non è un editore. È semplicemente un uomo d’affari e non c’entra nulla con il principio della libertà di espressione così com’è sancito dall’art.21 della nostra Costituzione:
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».

Francesco Denaro

venerdì 2 aprile 2010

Dissenso assenso

Terminate le elezioni, c’è chi canta vittoria e chi cerca di minimizzare la sconfitta mentre i cittadini tornano nell’anonimato a rappresentare numeri e statistiche. Proprio i numeri emersi da queste regionali, tuttavia, hanno superato le più rosee aspettative. Ben il 40% degli italiani si è rifiutato di votare e, quindi, di rendersi partecipe di un rito che ormai rasenta la legalità. Il dato espresso in percentuale, di per sé, vuol dire poco. Se però dietro ogni punto percentuale cominciamo a vedere un volto umano, quella statistica diventa devastante.Quindici milioni di persone – su quaranta – non si sentono rappresentate da nessun partito politico. Se a questi sommiamo il milione – milione e mezzo di schede bianche o nulle – e i cinquecentomila voti presi dai grillini, ci ritroviamo quasi un italiano su due che ha espresso il proprio dissenso non solo contro l’attuale governo ma contro il sistema partitocratrico nel suo complesso.
Come al solito le tv e i giornali si sono distinti in negativo confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, i loro ruoli da lacché. In questo senso, cosa ci si può aspettare da televisioni soggette al controllo politico o da giornali che sopravvivono con i finanziamenti pubblici? Niente. Infatti, il dato dell’astensionismo – ricordiamo quindici milioni di persone – è stato subito oscurato, lasciando spazio a surreali e inutili dibattiti.
La categoria che ha maggiormente disertato le urne è quella dei giovani. Questa defezione non è avvenuta certamente per le ridicole e fantasiose motivazioni asserite dai politici – “domenica era una bella giornata di sole, è colpa dell’ora legale, mancavano i talk show” – ma perché questo sistema, che penalizza ogni futuro, gli fa schifo.
Per il 50% della popolazione che ha espresso il proprio dissenso, ne esiste un’altrettanta che ha votato. Tra questi troviamo una grossa fetta che proviene dagli apparati; un’altra parte composta dai clientes e favoriti di ogni genere; quel che ne rimane rappresenta chi ha espresso il proprio voto libero e in buona fede.
Da questa disamina si evince con molta evidenza che ai partiti resta solo il proprio potere abusivo. Alla gente questo è ormai chiaro. Speriamo che presto se ne rendano conto anche loro e comincino a liberare le posizioni che hanno occupato illegittimamente (vedi la RAI); a dismettere le clientele che soffocano i meritevoli a vantaggio degli iscritti; insomma, a evitare di “umiliare il cittadino riducendolo a suddito costretto a chiedere come favore ciò che gli spetta di diritto”. Se questo non dovesse verificarsi, la silenziosa e pacifica protesta vista in questa tornata elettorale rischia di trasformarsi in violenza.

Francesco Denaro